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Tra i silenzi austeri delle biblioteche, l’anima dell’uomo si scontra con le molteplici sfumature del sapere. Fra le fila ordinate di libri e le vecchie pagine profumate di inchiostro e tempo, si celano misteri, storie, conoscenze e confessioni. Ma è nel rapporto tra l’uomo e queste opere che si cela la vera magia, un legame silenzioso e intimo che ci ricorda come siamo fatti di storie e di sogni.
In un angolo appartato della biblioteca, si potrebbe trovare un libro che non ha ancora rivelato i suoi segreti al suo possessore. Non perché non sia degno, ma perché il suo valore non risiede nella sua lettura, bensì nell’attesa. È un promemoria di ciò che non sappiamo, di ciò che attende di essere scoperto. Questa è l’anti-biblioteca di cui parlava Eco: una raccolta di sogni non ancora realizzati, di domande non ancora formulate. Il valore di un libro, infatti, non si misura solo nel suo contenuto o nella sua capacità di trasportarci in mondi lontani. Si misura anche nel suo potenziale, nelle domande che solleva, nei dubbi che instilla. L’anti-biblioteca è una testimonianza di umiltà, un riconoscimento di tutto ciò che ancora non sappiamo, un invito costante a ricercare, a interrogare, a riflettere.
Mentre un libro letto diventa parte di noi, diventa una memoria, un libro in attesa di essere letto è un potenziale, un’opportunità, una promessa. Non è un segno di ignoranza, ma un promemoria del nostro desiderio inesauribile di apprendere e di crescere. Ogni volta che osserviamo quegli scaffali colmi, vediamo non solo la ricchezza delle storie e delle conoscenze che possediamo, ma anche la ricchezza di ciò che ci attende. E in quel dialogo silenzioso tra libri letti e libri non letti, ci ritroviamo di fronte all’infinita capacità dell’uomo di sognare, di ricercare, di interrogare il mondo e se stesso. La biblioteca diventa così non solo un luogo di conservazione, ma un luogo di dialogo, di riflessione, di crescita.
Ecco la grazia della biblioteca: in essa convivono passato, presente e futuro, tutto ciò che sappiamo e tutto ciò che desideriamo sapere. E nel cuore di questo spazio sacro, l’anti-biblioteca di Eco ci ricorda che la vera saggezza non risiede nel possedere risposte, ma nel ricercare domande.

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Sotto il cielo di Palermo, in una notte che avrebbe dovuto raccontare solo stelle e brezze marine, una donna ha incrociato lo sguardo dell’abisso. Una parola, pronunciata come chi comincia a comporre una musica, ha riechitato un’eco antica, un timbro di potere e sottomissione: “carne”. Le donne ridotte a pezzi, non individui, non storie, non sogni o speranze, ma semplici oggetti da usare.
Tuttavia, mentre le notizie di questa tragedia ci attraversano, sentiamo che l’eco di questa parola risveglia in noi qualcosa di antico, un “corpo di dolore”. Non è un dolore che si possa facilmente mappare o descrivere con la precisione dei numeri e delle statistiche, ma si avverte nel profondo, come un fremito passato di generazione in generazione. Un ricordo collettivo che si risveglia. La rabbia che ne emerge non è solo un’emozione fugace; è un grido ancestrale che cerca giustizia, un desiderio di vedere un mondo in cui tali atrocità non hanno spazio. È una rabbia che chiede un rinnovato impegno di consapevolezza, soprattutto tra gli uomini. Non basta dire “non sono io”, bisogna chiedersi “cosa posso fare affinché non accada mai più?”.
L’impulso primordiale non dovrebbe essere di affermare la propria innocenza, ma piuttosto di esaminare e comprendere le radici di un comportamento così distorto e di lavorare per eradicarlo. Perché, in un modo o nell’altro, siamo tutti parte del tessuto di una società che ha permesso a tali pensieri e azioni di esistere.
Nella dolce melodia della lingua, nel ritmo delle onde che si infrangono sulla costa siciliana, c’è un desiderio ardente di un futuro diverso. Un futuro in cui la parola “carne” non evoca crudeltà, ma piuttosto la comune umanità che condividiamo tutti. Un futuro in cui ogni individuo è visto per quello che è: una storia, un desiderio, una speranza. E finché questo futuro non si realizza, la lotta, il dolore e la rabbia continueranno a ardere, chiedendo giustizia.

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Un posto ci sarà…

Un posto ci sarà
Per questa solitudine
Perché mi sento così inutile
Davanti alla realtà…

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Risonanze dell’Anima…

Nelle pieghe del tempo, giace una foto: un attimo sospeso, un respiro trattenuto nella tempesta incessante dei giorni. È un frammento di eternità, custodito in uno spazio non più grande della palma di una mano. Osservandola, si avverte il lento scorrere di un fiume passato, che serpeggia tra le rocce della memoria. Può essere l’immagine di un vecchio albero, le cui radici, ancorate nel profondo, sembrano raccontare storie di estati passate sotto la sua ombra fresca, di primavere in cui la sua chioma fioriva in una danza di colori. Oppure il volto di un bambino, i cui occhi brillano di una luce antica, come se contenessero in sé tutto l’universo. Le emozioni evocate da una foto non sono semplici ricordi: sono echi di un passato che vive nel profondo di noi, che vibra nelle corde più intime dell’anima. Sono come melodie dimenticate, che tornano in mente in un momento inaspettato, portando con sé la dolcezza di un abbraccio perduto, l’ardore di un bacio rubato, la malinconia di un addio. E in quella frazione di secondo, mentre la mente vaga tra le strade polverose della memoria, ci rendiamo conto che la foto non è solo un’immagine: è un ponte tra mondi, una porta che collega il presente con un passato che, per quanto lontano, continua a vivere, a respirare, a pulsare in ogni fibra del nostro essere. E mentre il mondo intorno continua a girare, inesorabile, quella foto ci invita a fermarci, a riflettere, a immergerci nel sacro fiume del ricordo, dove ogni goccia, ogni riflesso, ogni sussurro, è un invito a celebrare la bellezza dell’effimero, l’eternità dell’attimo. E in quel silenzio, si riscopre l’essenza pura dell’esistenza, l’ineffabile magia dell’essere.

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hic habitat felicitas…

Nelle pieghe della storia romana, le strade lastricate e gli archi maestosi sono solo la superficie. Più in profondo, oltre l’edificio pubblico e la maestosità degli dei, c’è un simbolo che risuona con potenza e mistero: il fallo.
Mentre il cielo di Roma era tappezzato di stelle e il Tevere scorreva placido, il fallo veniva celebrato non per la sua natura provocatoria, ma come un simbolo di protezione e fertilità. Era un emblema di ciò che è nascosto, ma essenziale, qualcosa che ogni romano sentiva in profondità, pur non parlandone sempre apertamente. Nelle strade romane, alla vista di tutti, c’erano rappresentazioni del fascinus, un fallo divinizzato. Non era un oggetto di derisione o vergogna, ma piuttosto un talismano. Un segno che, nonostante le battaglie e i tradimenti, la vita doveva continuare, prosperare e proteggersi dalle ombre incombenti.
Gli antichi romani sapevano che la vita è un ciclo. La nascita, la crescita, la morte e poi di nuovo la nascita. E in mezzo a tutto questo, il fallo come simbolo dell’essenza stessa della vita, un segno del potere generativo dell’uomo e della terra. Era anche un amuleto, uno scudo contro gli occhi invidiosi e i mali invisibili. Quella forma semplice, a volte ritratta in modi che per noi potrebbero sembrare grotteschi, era in realtà un omaggio alla forza della vita.
E così, mentre un generale trionfante sfilava per le strade di Roma, un fascinus veniva appeso sotto il suo carro, proteggendolo dagli sguardi gelosi. Era un simbolo potente, sì, ma anche un ricordo umile delle radici della vita e della necessità di proteggere ciò che è prezioso. La parola stessa “fascinare”, che oggi usiamo per descrivere un’attrazione irresistibile, ha le sue radici nel fascinus. Ma mentre oggi potremmo pensare al fascino come qualcosa di leggero e superficiale, per i romani aveva una profondità che toccava l’anima.
In tutto questo, c’è un invito a guardare oltre la superficie. A riconoscere che dietro ogni simbolo, anche il più audace, c’è una storia, una cultura e una fede profonda. La Roma antica ci sussurra ancora, se solo ci fermiamo ad ascoltare. E in quei sussurri, il fallo emerge non come un simbolo di volgarità, ma come un emblema dell’eterno ciclo della vita.

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Considero un valore…

Considero un valore la parola data,
Una stretta di mano, come un sigillo;
Parlare chiaro, senza farla lunga,
Promesse vane feriscono, più d’un coltello.

Rispetto per gli altri, per ogni gesto,
Per le idee, il tempo, ogni sforzo fatto;
Ognuno ha la sua storia, il suo contesto,
Un sogno nel cassetto, un passo dato.

Essere leali, anche quando è scuro,
Dire la verità, senza maschera e vezzo;
Riconoscere errori, senza muro,
Correggerli con cuore, senza peso.

Pazienza nel tempo, nelle attese,
Cadere e rialzarsi, senza mai cedere;
Credere nel futuro, nelle imprese,
Anche quando è dura, continuare a credere.

Saper ascoltare, senza intermezzo,
Mettere da parte l’orgoglio e il giudizio;
Capire l’altro, trovare il pezzo,
Di puzzle che manca, nel nostro servizio.

Generosità, senza contropartita,
Donare senza attendere una ricompensa;
Empatia che unisce, che invita,
A costruire ponti, senza difesa.

In questo mondo veloce, tutto corre,
Ma certi valori non passano mai;
Sono le fondamenta, che non si sciolgono,
Guidano ogni passo, in ombra o al sole, come fai.

Considero valore, ogni giorno che va,
Tutto ciò che ho scritto, e ciò che sarà.

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I Numeri di Jacobsthal…

Gli studi matematici, lungo i secoli, hanno prodotto una varietà di sequenze numeriche affascinanti. Una di queste è la sequenza di Jacobsthal, spesso oscurata dalla sua controparte più celebre, la sequenza di Fibonacci. Tuttavia, la sequenza di Jacobsthal ha delle proprietà uniche che la rendono degna di esame.

I numeri di Jacobsthal sono definiti dalla seguente relazione di ricorrenza:

Proprietà e Caratteristiche

  1. Crescita esponenziale: Sebbene inizino con valori piccoli, i numeri di Jacobsthal crescono esponenzialmente. La loro crescita è influenzata dal fattore 2 nella formula di ricorrenza.
  2. Relazione con la sequenza di Fibonacci: Esiste una relazione diretta tra i numeri di Jacobsthal e quelli di Fibonacci. È possibile esprimere un numero di Jacobsthal in termini di numeri di Fibonacci.
  3. Coefficiente binomiale: Un’altra interessante proprietà dei numeri di Jacobsthal è la loro relazione con il coefficiente binomiale, particolarmente nel conteggio delle combinazioni in cui elementi adiacenti sono esclusi.

Applicazioni e Significato

  1. Combinatoria: I numeri di Jacobsthal sono utilizzati in combinatoria, in particolare nel conteggio delle stringhe di lunghezza (n) formate da 0 e 1, dove due 1 non possono essere adiacenti.
  2. Studi di Tiling: Un’area che beneficia dell’utilizzo dei numeri di Jacobsthal è la teoria dei rivestimenti. Questi numeri possono rappresentare il numero di modi in cui una griglia \(1 \times n\) può essere ricoperta da piastrelle di dimensioni \(1 \times 1\) e \(1 \times 2\).
  3. Numero di Sottosequenze: I numeri di Jacobsthal sono legati al conteggio delle sottosequenze di una sequenza data, con restrizioni particolari sugli elementi adiacenti.

La sequenza di Jacobsthal, in conclusione, pur essendo meno conosciuta rispetto ad altre sequenze famose, detiene un fascino matematico e ha diverse applicazioni pratiche. L’analisi della sua crescita, delle sue proprietà e delle sue relazioni con altre sequenze rivela l’interconnettività intrinseca dei concetti matematici e il loro potere di descrivere fenomeni complessi in modi sorprendentemente semplici.

Il codice Python, qui riportato, stampa la sequenza dei numeri di Jacobsthal fino a n:

def jacobsthal(n):
    if n == 0:
        return 0
    elif n == 1:
        return 1
    else:
        return jacobsthal(n-1) + 2*jacobsthal(n-2)

def stampa_jacobsthal_fino_a(n):
    for i in range(n+1):
        print(jacobsthal(i))

# Test
n = int(input("Inserisci n: "))
stampa_jacobsthal_fino_a(n)
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Nella polvere agitata del tempo, sotto il velo impalpabile dell’oblio, si nasconde talvolta la perla più preziosa: una storia non raccontata, un genio sconosciuto. La storia di Vivian Maier è quella di un silente osservatore che, con il suo sguardo, ha saputo catturare l’essenza stessa del vivere.


Nata sotto un cielo di contrasti, tra l’ardente New York e le fredde Alpi francesi, Vivian ha tracciato un sentiero segreto, lontano dagli occhi del mondo. Un percorso iniziato nell’ombra di un maso francese, per poi irradiarsi nelle arterie pulsanti di New York e Chicago. Eppure, nonostante i suoi passi la conducessero attraverso l’effervescenza urbana, era la solitudine la sua costante compagna.


I bambini, con la loro innocenza disarmante, erano i protagonisti silenziosi delle sue storie. Con l’empatia di chi conosce la purezza e la fragilità dell’infanzia, Vivian ha immortalato sguardi, sorrisi, lacrime, momenti effimeri che, altrimenti, si sarebbero persi nel vento del tempo. Ma non solo bambini: nelle sue immagini troviamo anche donne, anziani, indigenti. Gli emarginati, i dimenticati. Quei volti che, forse, solo lei sapeva realmente vedere. E poi c’è la strada. La strada che conosce tutti i suoi passanti, che raccoglie le storie taciute, i sogni infranti e le speranze silenziose. Vivian era lì, in mezzo alla gente, ma sempre a una distanza protettiva. Il suo era un danzare discreto tra le persone, un intreccio di ombre e luci, di sguardi rubati e momenti congelati nell’eternità. Ma più di tutto, erano gli autoritratti a rivelare l’anima di questa fotografa enigmatica. Si nascondeva e si cercava in ogni riflesso, in ogni angolo di vetro o specchio, come se stesse tentando di rispondere alla domanda: chi sono? Eppure, anche nella sua incessante ricerca di sé, rimaneva un enigma. E proprio come le montagne alpine nascondono valli segrete, la sua arte celava profondità insospettate. Il passaggio al colore, la sperimentazione cromatica, era la sua personale rivoluzione, una danza di tonalità che la faceva sentire, forse, un po’ più vicina al cuore pulsante del mondo.
Nelle sue riprese in Super 8, il tempo sembrava fermarsi. Il mondo attraverso i suoi occhi era una sinfonia di immagini, una narrazione silente di gesti, sguardi e momenti. Un racconto di semplicità, di dettagli che diventano universali, di storie che, pur nascoste, parlano all’anima di ciascuno di noi.


Vivian Maier non ha mai cercato la luce della ribalta, ma la sua ombra, sottile e persistente, ha disegnato sul tessuto del tempo un ritratto indimenticabile della vita quotidiana. Un sussurro silenzioso che, ascoltato con attenzione, racconta la storia di un genio sconosciuto, di una donna che ha visto il mondo con occhi diversi e lo ha fatto suo, fotogramma dopo fotogramma.

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Onde di Serenità…

Il mare, nella sua vastità, era per me un abbraccio di pace, non un invito all’ozio, ma un canto di serenità che solo la natura sa offrire. Con ogni onda, portava silenziosi messaggi di calma all’anima mia.

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