Sergio De Simone viveva a Napoli, in una casa al numero 8 di Via Morghen, nel cuore del Vomero. Una vita tranquilla, la sua, scandita dalle attenzioni di sua madre Gisella. Lei, una donna sola, nata a Fiume e trasferitasi a Napoli dopo il matrimonio con Eduardo. Ma quel senso di solitudine non era solo una questione privata. Era il peso di un’intera società che li escludeva.
Dal 1938, con le leggi razziali, Gisella e Sergio erano diventati invisibili, marginali, privati di ogni diritto. Ogni giorno portava con sé nuove restrizioni, nuovi divieti, nuove umiliazioni. E, nonostante la gentilezza dei vicini Parlato o il conforto dell’amica Piera Nardi, la vita per loro era una continua battaglia contro l’indifferenza generale.
Poi venne l’estate del 1943. Gisella, sopraffatta dalla solitudine e dalla paura, prese una decisione. Fiume, la città della sua infanzia, poteva essere un rifugio sicuro. Pensava che lì, con la sua famiglia d’origine, avrebbero potuto trovare pace. Ma forse, se fossero rimasti a Napoli, gli Alleati e l’armistizio li avrebbero salvati.
Non fu così.
A Fiume, la tragedia li raggiunse. Gisella, sua sorella Mira e le nipotine Andra e Tatiana furono catturate e deportate ad Auschwitz. Anche Sergio fu preso. Da quel momento, il suo nome smise di essere un nome: era diventato il prigioniero A179614.
Gisella, Mira e le bambine sopravvissero. Ma Sergio no. Lui fu strappato alla madre, portato in una sezione separata del campo, dove conobbe il Dottor Mengele. Quell’uomo che si nascondeva dietro il camice bianco, quell’uomo che chiamavano medico ma che era il simbolo stesso dell’orrore. Mengele lo selezionò per gli esperimenti. Sergio era solo un bambino, ma per loro era solo un corpo. Gli inocularono la tubercolosi.
E quando non servì più, venne ucciso. Lo impiccarono, insieme ad altri venti bambini, “come quadri alla parete”. Era il 20 aprile 1945, pochi giorni prima della fine della guerra.
Sergio De Simone, però, non era un numero, non era una cavia, non era un quadro. Era un bambino. Aveva solo 7 anni.
Sette anni. E un’intera vita che qualcuno gli aveva rubato.
