Scrivere è lasciare un doppio segno: sul foglio, indelebile; e dentro, nell’anima, dove diventa ricordo.
Alla tastiera, invece, il gesto è breve, freddo, meccanico. Un tasto premuto, e la lettera appare già fatta, perfetta, ma priva di storia. Non senti la sua nascita, non segui il respiro che la conduce fino alla pagina.
La penna, invece, è tempo. È il ritmo di un momento che si deposita nell’inchiostro.
E la stilografica, più di ogni altra, ha il passo lento e deciso di chi non si lascia trascinare dalla fretta. Pretende rispetto, peso, consapevolezza. Il pennino si piega appena, vibra sotto le dita, e questa vibrazione risale fino al pensiero. Le parole non si rovesciano come acqua da un secchio: si costruiscono, si abitano.
Scrivere così è un atto di fedeltà verso se stessi. È dare forma a ciò che, altrimenti, resterebbe muto. Come camminare invece di salire in macchina: sentire la strada sotto i piedi, respirare il paesaggio. Le parole scritte a mano entrano più a fondo, nella memoria e perfino nelle ossa.
La stilografica non perdona la distrazione, ma ricompensa la cura. Insegna che ogni segno è per sempre, che una sbavatura è una cicatrice, e che proprio in quella imperfezione si cela la vita del foglio. Non c’è “salvataggio automatico”: c’è il gesto, la pressione, la pausa che separa un pensiero dal successivo.
E poi c’è il piacere fisico, quello che nessun tasto potrà mai restituire: il fruscio sottile del pennino sulla carta, l’odore pieno dell’inchiostro, la macchia blu sul polpastrello come un’impronta segreta. È un rito antico, un mestiere silenzioso: come affilare un coltello o impastare il pane. Inutile, finché non lo fai. Indispensabile, mentre lo fai.
Quando posi la penna e rileggi, non vedi soltanto parole. Riconosci la tua mano, la tua giornata, la tua voce che si è fatta corsivo.
E capisci che nessun computer potrà mai regalarti questo.
La stilografica, invece, sì. Sempre.
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