
C’è qualcosa di osceno nella parola “mostro”. Forse perché dentro c’è il verbo mostrare — e ciò che mostra, il mostro, è qualcosa che non vorremmo vedere.
Non è soltanto la deformità, non è solo il male: è lo specchio. È l’uomo che non riconosciamo più come uomo, e che tuttavia ci somiglia troppo per poterlo ignorare.
Ed Gein non è un personaggio: è un confine. Lo si guarda da lontano come si guarda il fondo di un pozzo, senza sapere se quel buio restituirà un volto o la nostra stessa immagine. Ryan Murphy lo sa, e per questo i suoi mostri non sono mai caricature: sono interrogativi. La serie non racconta un assassino, racconta ciò che resta di umano nell’orrore — e il modo in cui l’orrore, se lo si osserva troppo a lungo, si fa umano anche lui.
Charlie Hunnam dice che «non ci sarebbe stato un ritorno». Forse perché interpretare un mostro non significa indossare una maschera, ma toglierla. E scoprire che sotto, a volte, non c’è niente.
O peggio: c’è tutto quello che siamo.