
C’è un certo tipo di intelligenza che fa rumore. Quella che scrive libri, fa interviste, sorride nelle foto, va ai convegni e spiega al mondo quanto è intelligente. Poi c’è l’altro tipo. Quello che non vuole essere guardato. Quello che, se lo guardi troppo, si ritira. Quello che ti dimostra in silenzio che avevi torto, e poi si volta perché non gli interessa che tu lo sappia. Ettore Majorana era questo secondo tipo.
In Italia ci piace moltissimo parlare della sua scomparsa, del biglietto sul piroscafo, del mare che “mi ha rifiutato”. Ci piace l’enigma, la sparizione, la leggenda. Perché è più facile dire “è sparito nel nulla” che dire “era troppo avanti per noi”. È più comodo trasformare l’uomo in fantasma che fare davvero i conti con la sua mente.
Ma se vogliamo essere onesti, l’unico modo decente di avvicinarsi a Majorana è questo: non trattarlo come un mistero poliziesco, ma come una domanda morale. Una domanda sulla conoscenza. Sul rigore. Sul silenzio.
Perché lui era l’uomo che non pubblicava se non era sicuro. E quasi mai era “abbastanza sicuro”.
Era figlio di una famiglia colta e solida, cresciuto tra un padre ingegnere e uno zio fisico sperimentale. Il ragazzo che a vent’anni spiegava cose a cui i professori non avevano ancora pensato. E non sto esagerando per fare mito: c’è la scena, da cinepresa fissa in bianco e nero. Esame di geometria descrittiva. L’amico in crisi. Majorana che, aspettando il suo turno, tira fuori dal nulla la dimostrazione di un fatto di geometria sul toro (i cerchi di Villarceau, mica il teorema di Pitagora), la passa all’amico come se fosse un appunto al volo, e l’amico va dentro, la ripete parola per parola e il professore resta di stucco. “Elegante. Nuova.” Nuova anche per lui.
Cioè: Majorana scriveva sulle ginocchia cose che i docenti universitari non avevano ancora visto in carriera. E non è solo questione di brillantezza. Di “era bravo a fare i conti”. No. È un’altra cosa. È l’atteggiamento. Lui vedeva la struttura. Vedeva la simmetria. Tagliava quattro pagine di calcolo e diceva: “Queste quattro pagine sono quattro parole”. Lo diceva con calma. Senza posa. Senza bisogno di essere riconosciuto. Come se la semplificazione fosse un dovere morale, prima ancora che un gesto tecnico. E questa, forse, è la chiave. Perché intorno a lui, a Roma, intorno a Fermi, stava crescendo la macchina. Quella che poi chiameremo i ragazzi di via Panisperna. Una centrale nucleare di cervelli. Ruoli chiari, gerarchie morbide ma chiarissime: al centro il Papa, Fermi, con il suo pragmatismo feroce e lucidissimo. Tutto finalizzato al risultato. Al dato. Alla misura. Alla previsione verificabile.
Majorana no. Majorana orbitava.
Non per spocchia. Per metodo.
Era diverso. Faceva ricerca come un frate certosino. Lavorava da solo. Studiava la notte. Entrava la mattina, ascoltava, spariva. Quando parlava con loro lo faceva da pari, non da discepolo. E questo non perché “non riconosceva l’autorità”, ma per il motivo opposto: perché per lui l’unica autorità era la verità fisica, non il nome sulla porta.
Fermi, per dire, aveva passato una settimana intera di calcoli, riga per riga, con una macchinetta manuale, per risolvere una equazione differenziale non lineare, disgustosa, necessaria al suo modello atomico (quello che poi chiameremo metodo di Thomas-Fermi). Tabelle e tabelle di numeri. Majorana entra. Fermi gliele fa vedere un momento. Majorana ascolta in silenzio e se ne va. Il giorno dopo torna. Tira fuori dalla tasca un pezzetto di carta, roba minuscola. Una tabellina scritta a mano. Gli stessi numeri. Gli stessi. Li confronta. Dice: “Sono giusti.” E se ne va di nuovo. Fermi aveva impiegato una settimana. Lui meno di ventiquattro ore.
E qui bisogna fermarsi un attimo, perché il punto non è l’aneddoto. Il punto è l’imbarazzo.
Quella scena, raccontata mille volte, oggi ci arriva come un “wow incredibile, che genio”. Ma prova a guardarla da dentro. C’è qualcosa di quasi crudele. Non crudele nel senso cattivo. Crudele nel senso chirurgico. Entra, verifica, conferma, esce. Nessun bisogno di dire “posso migliorarlo”. Nessun bisogno di dire “l’ho rifatto più veloce di te”. Solo: controllo concluso.
È qui che Majorana smette di essere solo “quello intelligente”.
Diventa “quello inesorabile”. Perché lui non si limitava a capire. Lui giudicava.
Non giudicava le persone — giudicava le teorie. Le forzava fino al punto di rottura. Se tenevano, bene. Se non tenevano, erano da buttare. Anche se erano di Fermi. Anche se erano di Heisenberg. Questo è spaventoso.
È spaventoso soprattutto in un ambiente, quello dei fisici degli anni Trenta, che sta inventando letteralmente il mondo nuovo, l’atomo aperto, il nucleo, le particelle. Dove tutti stanno ancora imparando come parlare, quali parole usare, che cos’è davvero un neutrone, se il neutrone è una particella o un matrimonio forzato tra un protone e un elettrone. Lì lui arriva e dice: “No. Così non funziona.” E lo dice a Heisenberg.
Cioè: uno studente italiano, che va in Germania a lavorare con “Herr Professor”, guarda il modo in cui il “Herr Professor” sta descrivendo il nucleo e gli cambia il segno alle forze. Letteralmente. Cambia il segno. Sistema la struttura delle interazioni tra protoni e neutroni, toglie lo spin da dove non deve stare, pulisce l’ipotesi, la rende coerente con gli esperimenti. E da quel momento in poi, per tutti, quella cosa si chiama “forze di scambio di Heisenberg-Majorana”. Capite? Non è un dettaglio tecnico. È entrare nella casa di Heisenberg, guardare gli scaffali, risistemare i libri e uscire senza chiedere scusa.
E ancora: quando la comunità fisica stava ancora litigando sull’idea di antiparticella, su come gestire gli stati a energia negativa dell’equazione di Dirac, lui fa l’ennesima cosa inaccettabile. Prende il tavolo e lo ribalta. Tutti cercano di aggiustare la teoria di Dirac dicendo: “Va bene, allora immaginiamo un mare infinito di stati negativi già occupati, così spieghiamo il positrone come un buco”. Lui dice no. Non ci piace questo artificio. Non è pulito. Non è necessario. Facciamo una teoria più onesta, più simmetrica, in cui certe particelle neutre coincidono con le loro antiparticelle. Dove l’elettrone no (perché è carico), ma il neutrino forse sì. Da lì nasce il concetto di particella “di Majorana”. Ancora oggi, quando diciamo “fermione di Majorana”, stiamo dicendo “una particella che è se stessa e la sua immagine speculare”. È fisica, ma è anche metafisica. È identità e anti-identità fuse. È l’idea di assoluto applicata alla materia. È quasi teologia.
Ed è interessante che qualcuno lo chiamasse “il Grande Inquisitore”.
Perché rende bene.
Lui non era l’eretico romantico.
Era l’inquisitore della verità fisica. Il suo rigore non era estetico, era morale. Non pubblicava se la cosa non era completa. Non buttava fuori idee a metà per poi “aggiustarle nella versione 2.0”. Non giocava alla produttività accademica. Non correva. Non faceva numero. Anzi. Faceva l’opposto: rallentava, taceva, ritirava. Lasciava indietro lavori giganteschi perché per lui non erano ancora degni di essere esposti al sole.
Questa è la parte che fa male leggere oggi.
Perché oggi un giovane ricercatore, se non pubblica ogni sei mesi, muore. Accademicamente evapora. Non esiste più. Majorana pubblicò nove articoli. Nove. In dieci anni. Nove. Uno postumo. Eppure ognuno dei nove è un continente. C’è la tesi di laurea, che praticamente introduce la risonanza di forma — cioè l’idea che una particella confinata da una barriera di potenziale possa avere uno “stato quasi stazionario” che trapela, parla col fuori, vibra sul filo tra interno ed esterno. Roba che i suoi stessi professori, compreso Fermi, trovavano “matematicamente corretta ma fisicamente impossibile”. Poi il mondo andrà avanti e scoprirà che no, era possibile eccome. Che quella roba, la scattering risonante, esiste davvero. C’è il lavoro sulla teoria dei gruppi. Puro veleno per chi ama le scorciatoie. Perché lì lui entra nella simmetria profonda delle particelle, nelle rappresentazioni del gruppo di Lorentz, nelle funzioni d’onda a infinite componenti, prima ancora che il linguaggio matematico sia stabilizzato. Roba che Wigner — Wigner — dirà di aver quasi trovato tutta lì dentro, anni dopo. E allo stesso tempo ammetterà che il lavoro di Majorana non era stato capito fino in fondo. Cioè: lui aveva aperto una porta che gli altri avrebbero saputo nominare solo più tardi.
E poi c’è un dettaglio quasi tenero, quasi umano, che però dice tutto. La sigaretta.
Amaldi racconta che Majorana arrivava al mattino con in tasca un pacchetto di Macedonia. Non solo per fumare. Sul pacchetto — letteralmente sul cartoncino delle sigarette — aveva scritto, in una grafia minuta e ordinata, la teoria che gli era venuta in mente la sera prima. Una tabella di numeri. Una formula. Il cuore di un fenomeno fisico difficile. La tirava fuori solo se serviva a risolvere un dubbio in laboratorio. La spiegava alla lavagna, calma, precisa, chirurgica. Poi finiva la discussione, finiva l’ultima sigaretta, appallottolava il pacchetto e lo buttava. Lo buttava. Cioè, capiamoci: ciò che per chiunque altro sarebbe stato un articolo su Physical Review, per lui era carta da cestino. Questa non è eccentricità. Questa è intransigenza. Questa è la frase morale che taglia tutto il resto: “Non lo pubblico perché non è ancora come deve essere”. È rispetto per la verità. Rispetto quasi religioso.
Ecco perché parlare della sua scomparsa suona sempre un po’ volgare. Perché la gente si eccita sull’ultimo giorno: Napoli, marzo 1938, il piroscafo per Palermo, le lettere a Carrelli, “il mare mi ha rifiutato”. Si organizzano cento ipotesi, si costruiscono romanzi, si proiettano ombre. Ma tutta questa attenzione morbosa sulla scomparsa rischia di essere un modo elegante per non fare la fatica di guardarlo davvero mentre c’era. Cioè: è più comodo chiedersi “dov’è finito?” che chiedersi “perché noi non siamo così?”. Perché la domanda vera è fastidiosa.
La domanda vera è: quando è stata l’ultima volta che abbiamo preferito tacere invece di pubblicare una bozza che non reggeva? Quando è stata l’ultima volta che abbiamo buttato un lavoro perché era ancora sporco, invece di lucidarlo al minimo e venderlo come “provvisorio ma promettente”? Quando è stata l’ultima volta che abbiamo scelto la verità invece della carriera?
Majorana questo lo faceva tutti i giorni.
Si presenta a Napoli come professore “per chiara fama”, cioè: non fai il concorso, non fai la trafila. Ti siedi in cattedra perché sei già, di fatto, irrifiutabile. Entra in aula. Aula quasi vuota. Dieci persone. Lui con l’abito scuro, il volto chiuso, gli occhi bassi che ogni tanto si alzano e diventano coltelli. Spiega fisica teorica a studenti che magari non hanno nemmeno gli strumenti per capire chi hanno davanti. Non li adula, non li seduce, non li blandisce. Parla con la lavagna. Parla con la teoria. Parla con la verità fisica. Tu puoi anche non capirla subito, ma lei è lì. Lei non si abbassa. Questa è la sua forma di rispetto.
E poi, all’improvviso, silenzio. Il viaggio. Le lettere. Il vuoto.
E qui succede una cosa strana: più lui si ritrae, più noi lo trasformiamo in leggenda. Ma attenzione: la leggenda di solito serve a coprire le persone mediocri. A lui fa quasi il contrario. A lui la leggenda fa torto. Perché lo rende “mistero”, “caso insoluto”, “genio maledetto”. Lui non era maledetto. Era lucido. Ferocemente lucido. Lucido fino a risultare incompatibile. E allora forse andrebbe detto così: Majorana non è l’eroe tragico che si dissolve nelle onde. Majorana è l’ultimo professore serio. Serio nel senso antico: quello per cui o è vero o è niente. Serio nel senso che preferisce l’inesistenza pubblica alla mezza verità pubblicata. Serio nel senso che se una teoria non è pulita, non va “migliorata piano piano”, va rifatta da capo. Serio nel senso che, quando serve, entra nell’ufficio di Fermi, guarda i numeri, annuisce, e se ne va. Senza bisogno di altro. Senza selfie. Senza conferenza stampa. Senza tweet. Questa serietà oggi la chiamiamo “schivezza”.
“Era schivo”, diciamo. “Era riservato.” No. Non era timidezza.
Era dignità.
La sua assenza fa scalpore ancora adesso perché ci mette davanti a una domanda che non vogliamo farci: quanto vale, per noi, la verità?
Per lui valeva tutto. Valeva più della carriera. Più del riconoscimento. Più del proprio nome sui libri. Perfino più della propria presenza nel mondo.