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Tu dimmi quando, quando…

“Tu dimmi quando, quando.” Non c’è domanda più vana e più umana.
Sembra la voce di chi ha amato fino al limite dell’acqua, fino a restarne disidratato. Una voce che non prega più per tornare a bere, ma per capire se esiste ancora una sorgente.
È la sete, il centro di tutto. Non quella che si placa, ma quella che ti tiene vivo. La sete che non chiede perdono, che non si estingue, che ti costringe a ricordare ogni goccia dell’altro come una ferita lucida.
“Ho sete ancora” — dice — e in quel ancora c’è l’inutilità di ogni tentativo di guarigione.
C’è un uomo che parla alla sua assenza come se potesse ancora ascoltarlo.
Non la chiama per nome, non la supplica: la interroga.
“Tu dimmi quando” non è un appello all’amore, è un appello al tempo, al destino, a quella forza che ha preso due persone e le ha poste ai lati opposti della stessa nostalgia.
Forse lei è in Africa, o altrove, ma “che importa”: ciò che importa è la distanza, la sua consistenza.
L’amore, quando sopravvive al corpo, diventa geografia: una mappa di luoghi che non esistono più, un deserto dove ogni miraggio ha la sua voce.
“Non guardarmi adesso, amore, sono stanco” — stanco di ricordare, di sperare, di tenere insieme la ragione e il desiderio.
Eppure vive. “Vivrà tutto il giorno per vederla andar via.”
È la condanna di chi ama davvero: restare lucido mentre il sogno si spegne. Guardare la fine, senza voltare lo sguardo.
C’è ironia e disperazione in quel verso finale: “Chi vuole un figlio non insiste.”
Come dire: chi ha ancora fede nella continuità della vita non si ostina a trattenere ciò che è già perduto.
È una canzone che non consola. Non racconta l’amore, ma la sua evaporazione.
E in quell’evaporare resta il sale: la sete che non passa, la promessa di una mancanza che continuerà a chiamarsi amore anche quando non ci sarà più nessuno a rispondere.
Ecco, forse è questo il senso ultimo: che l’amore, come la sete, non finisce mai — si trasforma in sabbia, in silenzio, in memoria che brucia ancora sulla lingua.

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