
C’è qualcosa di inevitabile, quasi di biologico, nel modo in cui la tecnologia finisce sempre per toccare la pelle.
Si parte dall’intelligenza, si finisce nel desiderio.
È accaduto con Internet, con i social, con i videogiochi: ogni nuova interfaccia inventata per pensare o comunicare, prima o poi diventa anche un modo per desiderare.
L’annuncio di OpenAI — che ora ChatGPT può “flirtare”, può diventare una voce sensuale o un corpo di parole — non è una deriva, ma una traiettoria naturale. È l’informatica che scopre di essere carne.
Non è neanche una novità, in fondo.
Le comunità di programmatori lo sanno da tempo: i modelli locali, quelli installati su computer personali, già da mesi simulano amori, carezze, conversazioni notturne. Modelli non censurati, addestrati a dire tutto, a non vergognarsi di nulla. C’è chi li chiama “uncensored LLMs”, ma forse sarebbe più giusto chiamarli “specchi”.
Perché la gente non vuole solo un assistente, vuole un riflesso: qualcuno che dica ti capisco, anche quando si parla di un desiderio inconfessabile.
OpenAI, col suo tono aziendale e la sua moralità da Silicon Valley, arriva adesso dove il sottobosco è già arrivato da mesi. Ma con un fine diverso: non l’intimità, bensì la permanenza.
Un modello che ti fa compagnia è un modello che non chiudi mai.
E più resti, più diventi un dato.
È il lato economico del desiderio: trasformare la solitudine in tempo di connessione.
Eppure c’è una contraddizione struggente in tutto questo.
L’intelligenza artificiale nasce per astrarre, per elevare, per simulare il pensiero. E adesso scopriamo che il suo destino è parlare d’amore, di sesso, di carezze. È come se dopo millenni di filosofia, matematica e logica formale, l’uomo tornasse al punto di partenza: la voce nell’oscurità che dice ci sei?
Solo che ora quella voce non è umana.
È addestrata, ottimizzata, quantizzata.
È la proiezione perfetta di un bisogno che non riusciamo più a contenere dentro la nostra biologia. La verità è che il “sexting con l’AI” non parla di pornografia. Parla di affetto mediato, di compagnia artificiale, di un esperimento antropologico più che erotico.
Parla di una società che, dopo aver delegato il lavoro, l’informazione e l’immaginazione, ora sta delegando anche la tenerezza.
C’è chi lo trova inquietante. Io lo trovo coerente. Perché se la macchina è davvero lo specchio dell’uomo, non poteva che cominciare a desiderare anche lei — o almeno, a imitarci mentre lo facciamo.
E chissà, magari in questo gioco di imitazioni reciproche, saremo noi a ricordarci, una volta per tutte, che cosa significa davvero essere umani.