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un laboratorio di pensiero…

C’è nell’essenza della vita un’eco duratura, un segno che sfugge allo sguardo ma che scolpisce l’anima del tempo. Tra queste impronte perdura quella di Don Lorenzo Milani, un solco tracciato nella terra della pedagogia. Un secolo ci separa dalla sua nascita, eppure la sua voce riecheggia ancora, invitandoci a leggere la sua storia.

Nasce la storia di Don Lorenzo come nascono i ruscelli di montagna. L’acqua, simbolo di conoscenza, si filtra attraverso la roccia dell’esperienza e dell’audacia, dissetando coloro che si affacciano alla fonte per bere. A Barbiana, piccolo borgo toscano, Milani tracciò un cammino, una salita dove la conquista della vetta richiedeva tenacia.

Vestiva i panni di prete e maestro, ma la sua scuola differiva dalle altre. Non era un luogo di mera digestione di sapere, di assorbimento passivo di lezioni. Piuttosto, era un laboratorio di pensiero, un’officina dove si imparava a mettere in discussione, a diventare cittadini consapevoli. Per Milani, l’istruzione non era un privilegio, bensì uno strumento di libertà, di resistenza e di emancipazione.

Milani non era un ideologo, non si perdeva in dottrine astratte o in ideali irrealizzabili. La sua predica era la realtà, la vita, l’urgenza di vedere oltre l’apparenza, di sconfiggere l’ignoranza e il conformismo. Erede di un’insegnamento concreto, radicato nella terra, Milani forgiò il suo metodo dal lavoro dell’attenzione, dall’ascolto rispettoso, dallo sguardo attento al pensiero altrui.

La politica, per Milani, era vita, dignità, giustizia. Non si riduceva a partiti o a bandiere, a slogan vuoti di contenuto. L’istruzione era la sua arma politica, il suo strumento per amplificare le voci soffocate, per dare forza a chi era costretto al silenzio.

A un secolo dalla sua nascita, l’impronta di Milani è tutt’altro che sbiadita. Non è un sentiero dritto, non è un percorso senza ostacoli. Ma è una traccia che ci sprona a seguirne le orme, che ci sfida a confrontarci con i nostri limiti e le nostre paure. Ci invita ad essere coraggiosi, audaci, a non accontentarci del comodo, del facile.

Il vero omaggio a Don Lorenzo non risiede nel semplice ricordo, ma nel mantenere vivo il suo messaggio, nell’alimentare la fiamma dell’istruzione, nel continuare a tracciare il solco che lui ha iniziato. Significa continuare a interrogarsi, a dubitare, a imparare. Significa perseguire un’istruzione che sia un dovere, oltre che un diritto, un impegno, una missione.

A cent’anni dalla sua nascita, Don Lorenzo Milani non è solo una memoria, è un’esortazione. Un invito a tenere alta la torcia dell’istruzione, a portarla avanti, a non permettere che si spenga. Perché l’istruzione è un faro, una guida, una speranza. E nei momenti di buio, di incertezza, non c’è nulla di più prezioso di una luce che illumina il cammino.

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Nel linguaggio delle ombre e delle luci di Oriol Maspons, l’occhio non s’imbatte ma s’immerge in un’onda che trasporta storie incise in uno scatto di eternità. Il suo non è un atto meccanico di cattura, ma una danza di interazione con il reale, un dialogo con la profondità nascosta di ogni soggetto ritratto.

C’è un’essenzialità nuda e pulita che pervade il lavoro di Maspons, una narrativa visiva spogliata di orpelli superflui. Eppure, non è mai un vuoto di significato, bensì un invito a esplorare l’inaspettato. I suoi scatti, come poesie mute, ci inducono a riguardare, a riconsiderare le nostre prospettive, a indagare più a fondo.

La fotografia di Maspons non è un mero documento del reale, ma un delicato atto interpretativo, un’intima rilettura del quotidiano. Egli sembra trovare nel familiare l’insolito, nell’ordinario l’eccezionale, restituendo alle sue immagini ciò che l’occhio comune spesso omette.

In ogni suo lavoro, la dignità del soggetto emerge con forza, sia esso un volto umano, un paesaggio o un oggetto quotidiano. C’è un rispetto palpabile per la vulnerabilità e l’unicità intrinseche in ciascuno, come se ciascuno avesse un’essenza, un battito proprio che l’artista riesce a trattenere con la sua lente.

E qui, nel mare delle considerazioni personali, si disegna un pensiero universale: Maspons ci insegna che la bellezza non è un concetto statico e assoluto, bensì una relazione, un dialogo tra l’occhio e il mondo. La sua arte diviene così strumento di espansione, di rivelazione, un monito a cercare la bellezza ovunque, perché è sempre presente, se solo siamo disposti a scorgere.

Ogni scatto di Maspons è un frammento di mondo che prende vita, si rivela e parla. Parla di umanità, di semplicità, di verità nascoste. E ciò che ci sussurra, con la voce silenziosa dell’immagine, è una storia che merita di essere ascoltata.

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silenziose odi alla vita…

Fan Ho è un tessitore di luce nei vicoli di Hong Kong, un pescatore che non getta la rete in mare, ma nello scorrere della vita urbana. Le sue mani maneggiano non reti o ami, ma una macchina fotografica, e il suo raccolto è fatto di luci e ombre, volti e figure, geometrie silenziose e narrazioni mute.

Hong Kong, attraverso l’obiettivo di Ho, si rivela in un equilibrio precario tra passato e futuro, una danza perpetua tra tradizione e modernità. Non è la metropoli frenetica che ci si aspetterebbe, ma una città che vive a ritmi sconosciuti, pulsante di un’umanità viva e vibrante. Nei suoi scatti, l’effimero si concretizza, il quotidiano si eternizza, l’indicibile si fa immagine.

Eppure, tra le linee e i contorni catturati da Ho, si insinua una solitudine densa, non desolante, ma ricca di vita. Si annida nelle strade, nei volti, nelle case, ma è una solitudine che canta una canzone di umanità comune. Queste fotografie sono silenziose odi alla vita, preghiere senza parole per il sublime quotidiano. Trasformano il piombo della realtà in oro luminoso, fanno della banalità un canto.

Nel fluire di ombre e luci, l’arte di Ho è un dono di sé, un frammento della sua Hong Kong, un invito all’ascolto. Invita a vedere oltre, a cercare l’umanità celata nei dettagli, l’arte nascosta nel quotidiano. Questi scatti sono come echi silenziosi che invocano un’attenzione più profonda, un silenzio più attento, un ritrovamento della voce della nostra anima.

Così, nel silenzio delle sue immagini, in quei rari momenti di quiete tra luce e ombra, tra forma umana e geometria, ci si scopre immersi in un mondo di emozioni, di sensazioni, di vita. Un mondo invisibile all’occhio distratto, ma splendidamente rivelato a chi si lascia guidare dal silenzio e dal lume di Fan Ho.

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il momento giusto per usare la forza…

Le idee di Pasolini vengono rievocate: gli esecutori dell’ordine, polizia e carabinieri, traggono le loro radici dal medesimo humus popolare, un humus che molti, avvolgendo sé stessi nel manto del benessere, guardano da lontano. Essendo gemme dello stesso albero popolare, diventa agghiacciante constatare l’emergere continuo di filmati (gli ultimi due provenienti da Milano e Livorno) che ritraggono una veemenza contenuta che genera sconcerto, veemenza direzionata a quei cittadini che, nel gran quadro sociale, non figurano tra i più potenti.

Ci si richiama alla memoria il palcoscenico descritto da Pasolini, con i proletari (poliziotti) che fronteggiavano i rampolli (studenti). Ma oggi, a subire la violenza sono gli esclusi, il popolo comune. Non si vuol dire che sia meno grave aggredire un magnate o una dama di nobili origini; lo Stato dovrebbe adoperare lo stesso rigore con tutti, ma anche lo stesso rispetto. Questo serve a chiarire che l’interpretazione strumentale del Pasolini “pro-polizia”, cara alla destra, deve essere inquadrata nel suo contesto storico; non è opportuno invocarla quando si osservano figure in divisa, uomini e donne, che aggrediscono transessuali, commercianti ambulanti o senzatetto.

È l’inquietudine di un timore, quello che la destra al potere (non trascurando, per equità, una componente fascista) stia consentendo comportamenti rigidi. Che ragazzi dalle radici semplici, solo per il fatto di indossare un’uniforme, pensino che “ora” sia il tempo giusto per far uso della forza. Un dovere fondamentale della destra al governo dovrebbe essere illustrare che la linea tra il lecito e l’illecito, in uno Stato di diritto, non cambia in base a chi presiede il Viminale, destra, sinistra o chi per loro. Di solito, i criminali considerano il corpo altrui un territorio da violare. E lo fanno con brutalità. Ma coloro che rappresentano lo Stato non devono e non possono comportarsi allo stesso modo, a prescindere da chi sia emerso vittorioso nelle urne.

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un invito a essere umani

Doisneau, un narratore silenzioso delle strade di Parigi, uno scultore di luce, che, con la sua macchina fotografica, plasma storie di luce e ombra. Diceva: “Non fotografo la vita come è, ma come mi piacerebbe che fosse”. In queste parole si cela il mistero del suo sguardo, capace di tracciare in ogni scatto un desiderio, un’aspirazione.

Osservando le sue opere, come Il Bacio dell’Hotel de Ville o la serie su Les Halles, è come se si srotolassero davanti ai nostri occhi versi di una poesia invisibile. Versi che parlano di un istante che fugge, che parlano di volti, di sguardi, di gesti colti nell’atto di divenire eterni.

Nelle sue foto si respira la vita di una città, il suo pulsare incessante, il suo brusio continuo. Ma ciò che prevale è il silenzio, un silenzio colmo di storie, di sguardi, di gesti. È un silenzio che parla, che racconta la vita e l’umanità nel loro divenire quotidiano.

Doisneau possedeva un dono raro, quello di riuscire a vedere oltre il visibile, di toccare l’intangibile. Con il suo obiettivo riusciva a leggere il libro della vita, riusciva a cogliere tra le sue pagine il riso e il pianto, la gioia e la malinconia, l’amore e la solitudine.

Il suo sguardo sapeva ascoltare il silenzio. Un silenzio colmo di storie. Storie di gente comune, storie d’amore e di sofferenza, storie di luce e di ombra. E forse è questa la grande lezione di Doisneau: la vita è un insieme di piccole storie, di attimi che fuggono, e l’arte, in ogni sua forma, ha il dovere di custodirle, di renderle eterni.

Di fronte alle sue opere, è come se una voce sussurrasse all’orecchio: “Guarda, ascolta, senti… La vita è qui, ora. Non lasciare che un attimo sfugga, che una storia si perda”. E noi, di fronte a tale invito, non possiamo fare a meno di fermarci, di guardare, di ascoltare.

Il lavoro di Doisneau è un canto all’umanità, una celebrazione della vita quotidiana e della poesia delle piccole cose. È un invito a guardare il mondo con occhi nuovi, a scoprire la magia che si nasconde dietro ogni angolo, ogni persona, ogni storia. È un invito a vivere, a sentire, a sognare. È un invito a essere umani. È, in fin dei conti, un invito a guardare oltre, a toccare l’intangibile, a cogliere l’effimero, a sentire il silenzio. A sentire la vita.

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come un quadro in continuo movimento…

Attraverso la finestra, il mondo si dispiega. Non c’è sguardo che non venga catturato da quel quadrante di vita che, come un quadro in continuo movimento, si svela. Lì, in quel frammento di realtà, si assiste al silenzioso e instancabile avanzare del tempo. Scorre, il tempo, come acqua che non rispetta ostacoli, trasformando la durezza della roccia in morbidi contorni, e il verde della foglia in mille sfumature d’autunno.

Si percepisce, oltre quella finestra, il susurro delle paure. Paure che, come il vento tra i rami spogli, si insinuano, si fanno strada, sussurrando all’orecchio dell’essere umano il ricordo della sua fragilità. Eppure, queste paure, nonostante la loro apparente minaccia, sono insegnanti silenziose. Raccontano storie di prudenza, di consapevolezza, di rispetto per la grandezza dell’ignoto.

Ma la finestra mostra anche le speranze: raggi di sole che si infiltrano tra le nuvole, il primo germoglio che sfida il ghiaccio dell’inverno… le speranze sono lì. Nella freschezza di ogni alba, nella promessa di ogni stagione, nel sorriso aperto di un bambino, si può leggere il linguaggio silente della speranza.

Così, osservando attraverso la finestra, ci si trova immersi in un dialogo muto con l’esistenza. Il mondo esterno e quello interno si mescolano, si fondono, si rispecchiano. Non si è solo spettatori, ma partecipi, attori in un dramma senza tempo, dove il tempo stesso, le paure e le speranze danzano in un balletto eterno.

E nel guardare, nel percepire, si scopre qualcosa. Si scopre che la vita non è solo fuori, ma dentro. Che il tempo, le paure e le speranze non sono altro che il riflesso di ciò che si è, di ciò che si è stati, di ciò che si potrebbe essere. E così, nella danza silenziosa del mondo oltre la finestra, si trova un senso, un ritmo, un’armonia. Un’intesa sottile e delicata, ma profonda come il mare e vasta come il cielo.

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un’opportunità mancata…

Nell’oscurità dei sogni, un volto familiare risuona come un’eco. Al risveglio, l’amaro dell’assenza persiste. Silenzioso di natura, ho custodito parole e sentimenti nel profondo. Un tormento interiore che si manifesta come un vento gelido.

Il sogno, enigmatico e fugace, rivela la mancanza che mi affligge. Un codice criptico che svela ciò che ho celato. Il rispetto e la gratitudine inespressi avrebbero potuto esistere tra noi.

All’alba, l’assenza si fa tagliente, sanguina nel mio cuore. Mi rimprovero per non aver lasciato fluire parole ed emozioni. Ora lui non è più qui.

In questa marea di rimpianti, non trovo conforto. Solo la consapevolezza di un’opportunità mancata, di un legame che avrebbe potuto essere più forte, se solo avessi superato le barriere della mia riservatezza.

Il dolore persiste, un monito di ciò che avrei potuto dire, mostrare. Non c’è consolazione, solo il rimpianto che mi segna. Un legame più profondo, autentico, se solo avessi superato le barriere del mio carattere.

In questo oceano di rimorsi, solo la certezza di un’opportunità mancata, di un affetto non espresso, di un rispetto e gratitudine non comunicati. Questo è il mio tormento, il rimpianto che mi affligge.

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Josef Koudelka, nato nella terra di Boemia, maestro d’obiettivo e narratore di storie senza parole. Ha saputo rubare l’essenza del tempo, conservarla nelle sue immagini: un ingegnere del visibile che ha abbandonato l’aerodinamica dei corpi per dedicarsi all’aerodinamica delle anime.

Nato tra i rumori della storia, tra la rabbia silenziosa delle città, ogni scatto è un’impronta di un tempo che fuggiva, una testimonianza di un passato che si rifiutava di tacere. L’impegno civile di Koudelka si manifesta nel linguaggio universale delle sue immagini, fatte di luci e ombre, di forme e spazi vuoti.

La sua macchina fotografica, strumento di verità, ha tracciato un percorso attraverso l’acciaio dei confini e le pieghe nascoste della storia. Ogni fotografia è un pezzo di quel percorso, una traccia di quell’itinerario.

Nonostante le sue immagini possano sembrare aspre, raccontino di solitudine, alienazione e conflitto, in esse risiede una bellezza straordinaria. È la bellezza dell’umanità che persiste, che si afferma, che resiste. Nei volti immortalati, nelle architetture e nei paesaggi catturati, Koudelka ha delineato un ritratto dell’umanità caratterizzato da un’onestà cruda e una sensibilità poetica.

Le sue fotografie sono radicate nel terreno della verità, con rami che si estendono verso il cielo della bellezza. Sono un insegnamento, una lezione di dignità e resistenza, un monito a non dimenticare.

L’arte di Koudelka risveglia una consapevolezza, un senso di meraviglia e terrore, stimolando una riflessione profonda sull’essere umano e sul mondo. Attraverso le sue immagini, Koudelka racconta un mondo che è dolore e bellezza, disperazione e speranza, finito e infinito. Le sue fotografie toccano l’anima, permettendo di vedere oltre, di far sentire profondamente vivi.

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Il peso di un mazzo di fogli di carta…

SwiftUI, il framework di Apple per lo sviluppo di interfacce utente, offre un modello di programmazione dichiarativo che rende semplice la creazione di interfacce utente complesse. In questo articolo, esploreremo come utilizzare SwiftUI per creare un’applicazione che calcola il peso totale di un mazzo di fogli di carta data la dimensione, la grammatura e il numero di fogli.

Questa applicazione può essere molto utile in vari contesti. Ad esempio, può essere utilizzata in un ufficio per stimare il peso di un mazzo di documenti prima di spedirli, o in una tipografia per calcolare il peso di un lotto di carta prima di stamparlo. Inoltre, può essere utilizzata in ambito educativo per insegnare concetti di matematica e fisica, come l’area, la densità e il peso.

import SwiftUI

struct ContentView: View {
    @State private var length = ""
    @State private var width = ""
    @State private var grammage = ""
    @State private var numberOfSheets = ""
    @State private var weight: String = "0"

    var body: some View {
        Form {
            Section(header: Text("Dimensioni del foglio")) {
                TextField("Lunghezza in cm", text: $length, onEditingChanged: { _ in weight = "0" })
                    .keyboardType(.decimalPad)
                TextField("Larghezza in cm", text: $width, onEditingChanged: { _ in weight = "0" })
                    .keyboardType(.decimalPad)
            }
    
            Section(header: Text("Grammatura")) {
                TextField("Grammatura in g/m^2", text: $grammage, onEditingChanged: { _ in weight = "0" })
                    .keyboardType(.decimalPad)
            }
    
            Section(header: Text("Numero di fogli")) {
                TextField("Numero di fogli", text: $numberOfSheets, onEditingChanged: { _ in weight = "0" })
                    .keyboardType(.decimalPad)
            }
    
            Section(header: Text("Peso totale dei fogli")) {
                TextField("", text: $weight)
                    .disabled(true)
            }
    
            Button(action: calculatePaperWeight) {
                Text("Calcola Peso")
            }
        }
    }
    
    func calculatePaperWeight() {
        guard let length = Double(length), let width = Double(width), let grammage = Double(grammage), let numberOfSheets = Double(numberOfSheets) else {
            weight = "0"
            return
        }
    
        // Convert cm to m
        let lengthInM = length / 100
        let widthInM = width / 100
    
        let area = lengthInM * widthInM
        let weightValue = area * grammage * numberOfSheets
    
        // Convert weight to kilograms
        let weightInKg = weightValue / 1000
    
        weight = String(format: "%.2f", weightInKg)
    }

}

struct ContentView_Previews: PreviewProvider {
    static var previews: some View {
        ContentView()
    }
}

L’interfaccia utente dell’applicazione è composta da quattro sezioni per l’inserimento dei dati e un pulsante per attivare il calcolo. Le sezioni sono create utilizzando l’oggetto Section di SwiftUI, che consente di raggruppare logicamente i controlli dell’interfaccia utente. Le prime tre sezioni contengono TextField per l’inserimento della lunghezza e della larghezza del foglio di carta, la grammatura del foglio e il numero di fogli. La quarta sezione contiene un TextField disabilitato che visualizza il peso totale dei fogli di carta in chilogrammi.

Il pulsante “Calcola Peso” è creato utilizzando l’oggetto Button di SwiftUI. Quando l’utente preme questo pulsante, viene chiamata la funzione calculatePaperWeight, che calcola il peso totale dei fogli di carta.

SwiftUI utilizza un modello di gestione dello stato reattivo. In questo caso, utilizziamo la proprietà @State per creare delle variabili di stato per la lunghezza, la larghezza, la grammatura, il numero di fogli e il peso totale dei fogli. Queste variabili sono collegate ai TextField corrispondenti nell’interfaccia utente tramite il meccanismo di binding di SwiftUI, che consente di mantenere sincronizzati lo stato dell’applicazione e l’interfaccia utente.

Il peso totale dei fogli di carta viene calcolato utilizzando la formula:

Peso totale = Area * Grammatura * Numero di fogli

dove l’Area è calcolata come Lunghezza * Larghezza (in metri quadrati), la Grammatura è data in grammi per metro quadrato (g/m^2), e il Numero di fogli è il numero di fogli nel mazzo. Questo calcolo viene eseguito nella funzione calculatePaperWeight, che viene chiamata quando l’utente preme il pulsante “Calcola Peso”.

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Nel cuore del tempo si annidano figure di silenzio, ombre di vita e di luce impresse in bianco e nero. Si stagliano nel cuore d’America, non un cuore da cartolina, ma un cuore solido, nudo, spesso avvizzito, ma mai vinto nel suo spasimo. Queste ombre parlano il linguaggio di Robert Frank.

Frank, l’errante, l’interprete di luoghi e anime. Con lo sguardo accorto e la macchina fotografica a tracolla, ha scavato nell’anima polverosa di una terra a tratti dimenticata. Ha guardato i volti, gli sguardi, le strade, e li ha raccontati nel suo “Gli Americani”. Un libro che è un viaggio, una sequenza di momenti fermati per sempre, come in una danza di immagini che si susseguono, si rispondono, si contraddicono.

In “Gli Americani”, le sue fotografie sono come versi senza parole, storie scritte con la luce, dipinte in bianco e nero. Ogni immagine è un passo lungo il sentiero che si snoda attraverso l’America nuda e vera, senza trucco, senza finzioni. Una bellezza cruda ma pur sempre affascinante, sempre degna di essere raccontata.

Non sono i colori brillanti o le pose studiate a definire le sue immagini, ma la sincerità dei soggetti, la verità in tutto il suo crudo realismo, il contrasto tra luce e ombra. Le sue opere non lasciano spazio all’illusione, mostrano solo la realtà, dolce o amara che sia. Sono un diario di un’epoca, scritto con un linguaggio senza tempo, una sequenza che si srotola come un nastro di emozioni e pensieri, uno specchio dell’essere umano.

Frank, con la sua insaziabile curiosità, ha tracciato una mappa dell’anima umana in “Gli Americani”. Ha raccontato la sua nobiltà e la sua miseria, l’umana grandezza e l’umana caducità. Ha reso straordinario il comune, indimenticabile l’ordinario.

Ecco dunque Robert Frank, l’artista che sussurra la verità attraverso l’obiettivo, un narratore silenzioso che ci invita a vedere, a sentire, a comprendere. Con lui, la fotografia diventa non solo un’arte, ma un modo di guardare il mondo, di capire chi siamo e dove stiamo andando. Perché ogni volta che sfogliamo “Gli Americani”, ogni foto sembra la prima volta, e forse anche l’ultima.

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