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…e così entrò nella danza della morte.

Robert Oppenheimer, figlio dell’antico popolo ebraico, vide la luce del giorno nel 1904, in un lembo di terra baciato dall’oceano, laddove sorgeva New York. Cresciuto in un ambiente familiare che cullava agiatezza e cultura, il suo spirito inquieto si fece strada nel rigore di Harvard, dove assaporò la chimica, maestra rigorosa dalle risposte nette e precise. Lasciò poi le aule accademiche per l’Europa, tuffandosi nel fervore della fisica teorica a Göttingen, luogo di incontro delle menti più ardite del tempo.

Tornato tra i campi di grano della California, nella quiete dell’insegnamento, Oppenheimer distillò in se stesso la sua curiosità cosmica, unendo la scienza all’arte, l’Occidente all’Oriente. Come un fiume che si fa mare, raccolse in sé il mistero dell’atomo e i versi millenari del Bhagavad Gita.

Ma il tempo era un fiume in piena, e la sua corrente travolgeva il mondo in un conflitto senza precedenti. Fu allora che Oppenheimer venne chiamato a guidare un progetto audace e spaventoso: la creazione della bomba atomica. Accettò, e così entrò nella danza della morte.

Il deserto del New Mexico, il 1945, un’esplosione che colorò l’oscurità come un nuovo sole, portatore di distruzione e morte. Di fronte a quell’immagine, le parole sgorgarono spontanee dalle labbra di Oppenheimer: “Ora sono diventato Morte, il distruttore dei mondi.”

Il post-guerra vide Oppenheimer consigliere di potenti, ma il rimorso si insinuò come un verme nell’anima, corroendone i giorni. Lasciò le luci della ribalta per le ombre della riflessione, fino alla sua morte nel 1967.

La sua figura si staglia nel passato come un monito, un uomo che osò spingersi oltre i confini della conoscenza, ma che nel farlo, scoprì un potere troppo grande per essere contenuto. Un uomo che, come una stella cadente, illuminò il cielo della scienza con la sua brillantezza, ma che alla fine si consumò sotto il peso del proprio fuoco.

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