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perle di luce dall’ombra…

Bob Willoughby, nato il 30 giugno 1927 sotto un cielo californiano già pronto a testimoniare la sua ascensione, ha preso il fermo di un’immagine e le ha dato vita, tracciando così il sentiero del photojournalism nella storia del cinema. Come chi pesca perle dal mare, ha pescato perle di luce dall’ombra, creando tracce indelebili di un tempo che adesso vive solo nelle sue opere.

La macchina fotografica di Willoughby era un occhio extra, un terzo occhio che svelava l’intimo delle stelle di Hollywood. Audrey Hepburn nel suo abito bianco su un set di “My Fair Lady”, James Dean e il suo sguardo ribelle in “Rebel Without a Cause”, Marilyn Monroe, icona splendida e tormentata. Non erano ritratti, erano anime impresse sulla pellicola, echi di un’epoca, ombre lunghe di verità.

Willoughby, artigiano del fotogramma, ha saputo unire la bellezza dell’arte alla cruda verità del reportage. La sua tecnica privilegiava l’uso della luce naturale, che vestiva di verità i soggetti dei suoi ritratti. La sua macchina fotografica non era solo uno strumento, ma un cuore che pulsava, un polmone che respirava, un orecchio che ascoltava, un’estensione della sua stessa anima.

Con la sensibilità di uno scultore, toccava la realtà come chi modella l’argilla, tracciando con delicatezza le linee dell’umanità. Ogni gesto catturato, ogni sguardo, ogni respiro diveniva una confessione, un frammento di verità nuda e cruda.

Le sue opere non sono semplici fotografie, sono poesie scritte con la luce, sono canzoni senza musica, sono storie senza parole. Attraverso la sua lente, l’epoca d’oro di Hollywood si è trasformata in un’epopea, in un mito senza tempo.

Willoughby, volato via il 18 dicembre 2009, ha lasciato dietro di sé un’eredità che supera il tempo e lo spazio. Le sue opere sono le pagine di un libro che continua a vivere, a parlare, a raccontare, a sussurrare storie di un tempo passato. E così, nel silenzio dei suoi scatti, l’epoca d’oro di Hollywood continua a vivere, a brillare, a respirare.

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