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Premonition…

La vita di Linda scorre su binari apparentemente ordinati, incasellata in ruoli prestabiliti di moglie e madre. La quotidianità si ripete pigra nei suoi rituali domestici, tra le mura protettive della sua graziosa casa di periferia. Linda ignora che il treno su cui viaggia placida sta per deragliare.
Un giorno qualunque, il destino le fa lo sgambetto. Linda si sveglia e non riconosce più il paesaggio familiare. Gli eventi procedono scomposti, il tempo ha perso la sua linearità. È come se un monte di pezzi di un puzzle fossero stati gettati per aria e ora Linda brancola per raccoglierli e ricomporre l’immagine.
La mente di Linda vaga in un labirinto di possibilità, attanagliata dal dubbio se ciò che percepisce sia reale o illusorio. Le certezze si sgretolano, il terreno frana sotto i piedi. Deve imparare a camminare di nuovo, un passo dietro l’altro, per non scivolare nel baratro della follia.
Nel suo vagare nel tempo, Linda è un novello Dante smarrito in una selva oscura, la sua vita ordinaria diventa un inferno di incertezze. L’unica guida che Linda possiede è l’amore per la sua famiglia, un amore viscerale che la spinge ad aggrapparsi anche alla più flebile luce di speranza.
Il regista Yapo guida lo spettatore in questo viaggio perturbante. La macchina da presa indugia sul volto mutante di Linda, specchio del suo tumulto interiore. Gli occhi spalancati in un misto di sgomento e determinazione.
Yapo opta per una messa in scena essenziale, senza orpelli. Il minimalismo della regia fa risaltare l’espressività di Linda-Bullock, ora sfinita ora battagliera, sempre intensa. Yapo segue il suo vagabondare avanti e indietro nel tempo con movimenti di macchina fluidi, in perfetta sintonia col turbinio emotivo del personaggio.
Purtroppo l’intreccio narrativo non regge il passo di questa prova d’attrice. La sceneggiatura di Kelly trasforma quella che poteva essere un’intrigante riflessione Metafisica in un groviglio di eventi dalla logica claudicante. Lo spettatore brancola nel buio insieme a Linda, incapace di distinguere i confini tra i diversi livelli di realtà.
Il film ambiva ad essere un raffinato congegno a orologeria, ma gli ingranaggi non combaciano a dovere. Le lancette girano all’impazzata, senza scandire un tempo credibile. Tutto è lasciato all’interpretazione, in un finale che pretende di essere intrigante ma suona piuttosto come una resa.
Peccato, perché il potenziale per tessere un thriller psicologico denso di spunti c’era tutto. Ma la sceneggiatura si perde in un dedalo autoreferenziale. Ne esce un film disorientante, che alimenta la confusione invece che dipanarla. Ha ragione Linda-Bullock a guardare incredule le tessere sparpagliate dinanzi a sé: di questo puzzle non si salva che qualche singolo pezzo. Il quadro d’insieme è irrimediabilmente sfocato.

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