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L’ingegnere del linguaggio…

Era il 1953 e Carlo Emilio Gadda raccolse in un volumetto intitolato Norme per la redazione di un testo radiofonico una serie di regole per scrivere in modo chiaro e corretto i testi destinati all’ascolto.

Scriveva l’ingegnere: «costruire il testo con periodi brevi», «procedere per figurazioni paratattiche, coordinate o soggiuntive, anziché per subordinate», «evitare le parentesi, gli incisi, gli infarcimenti e le sospensioni sintattiche», evitare le parole e le locuzioni straniere che hanno un equivalente italiano.

Ma le raccomandazioni più belle sono quelle che hanno per oggetto la vanità dei giornalisti: «Compito del presentatore è quello di rendere un’immagine evidente e in quanto possibile obiettiva» dell’oggetto di cui si parla, «non quello di insabbiarne l’effige col polverone della propria autorità».
«Il pubblico che ascolta una conversazione — scrive Gadda — è un pubblico per modo di dire. In realtà si tratta di “persone singole”, di mònadi ovvero unità, separate le une dalle altre. Ogni ascoltatore è solo: nella più soave delle ipotesi è in compagnia di “pochi intimi”. Seduto solo nella propria poltrona, dopo aver inscritto in bilancio la profittevole mezz’ora e la nobile fatica dell’ascolto, egli dispone di tutta la sua segreta suscettibilità per potersi irritare del tono inopportuno onde l’apparecchio radio lo catechizza.» E, allora, non bisogna «suscitare l’idea (…) di un insegnamento impartito, di una predica, di un messaggio dall’alto. L’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il cervello opinante al cervello opinante». Perciò è bene «astenersi dal presupporre nel radioabbonato conoscenze che ‘egli’, il ‘qualunque’, non può avere e non ha. Inibirsi la civetteria del dare per comunemente noto quello che noto comunemente non è».

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