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Lupo.

Sono al Fico d’india, come ogni sera. Vengo qui quando il bar della piazza chiude. Mi piacciono i colori e l’odore del posto. Un misto di chiuso, di sudore, moquette, legno, gardenie e luci soffuse. D’inverno è il deserto per questo posto. Sto seduto in penombra, fuori dalla finestra c’è un buio nero come la pece che avvolge le cose. Bevo birra. Dice che quando bevo divento violento, picchio duro e invece, da sobrio, sono di animo buono, alto, massiccio e tozzo. Lupo, Colonnello, Gladiatore, datemi cento nomi, nomi di battaglia, adatti a un condottiero. La mia fama di scapestrato in paese è nata con me, gli ho semplicemente dato corpo. A vent’anni mangiavo anfetamina e lanciavo la macchina di mio padre sulla strada del mare a M*. Tempi gloriosi quelli! Capelli fin sulle spalle e piattole, ogni notte un letto nuovo. Le donne: in troppe hanno cercato di rompermi la schiena. Ma calmarmi no, ché io non mi calmo affatto. A me piace la vita, la penombra delle discoteche, la carne rosa della Milena che si dimena sulla pedana: quante ne ho avute prima di lei, sciacalli che la nebbia di questi luoghi incrina.
È vero. M’han fermato per quel fattaccio di Rogas, quel ragazzo morto ammazzato a C*. Che c’entro io? L’ho detto ai questurini. Via, lasciatemi in pace. Se finisco dentro regolare è per brutto carattere, mica per colpa. Va tutto bene, ma a un tratto una parola, un cenno, un bicchiere di troppo, e un grido mi si espande improvviso dentro al petto, in fondo al plesso monta un’ira sorda. Hai voglia a darmi addosso: non sono più io.
Quello là, per esempio, siede con la ragazza sulle ginocchia e ride. Non mi piace come ride, e quando uno non mi piace, io glielo vado a dire. La ragazza è carina però, e come gli si struscia. Guardala! Mi alzo, vado. Che gli dico? Ma che cazzo ne so! Vado, mi verrà qualcosa in mente.
La ragazza mi guarda con due occhioni molli. Ha paura. Mi basterebbe allungare una mano per averla. Il compare però c’ha la grana, scommetto che fa mozzarelle in una delle masserie qui intorno…
Lavato, sbarbato, camicia aperta sul petto nudo e villoso: le folte sopracciglia mi dichiarano maschio, come il pomo d’Adamo pronunciato e il collo da toro. Andiamo, pupa, che t’importa se l’amico protesta? Ciò che sarà fra noi l’ho già deciso e non lo cambio.
Enrico però mi affronta. Non gli vado a genio e manco lui a me. Vecchia ruggine fra noi. Ex pugile e padrone del locale. Ci tiene a quel posto, è logico, c’ha investito tempo e quattrini. Mi urla in faccia e questo mi confonde. Vorrei starmene qui finché il Fico chiude. C’è il vuoto fuori, troppa nebbia. Milena vorrà qualcuno che l’accompagni a casa, aspetteremo in macchina che la nebbia diradi e dopo i baci guadagnerei in pace la strada. La brina ghiaccerà gli stabbi. Badilare, presto, e poi spargere sabbia, ché lo sterco duri.
No, non ce l’ho con tutti, come dicono qui in paese. Non è per la ragazza, è per me. Se non meni le mani nessuno ti dà conto. Enrico lo sa, però mi urla addosso, figlio di puttana! Chino la testa. Can che abbaia non morde, mi ripeto. Gira alla larga, bestia! Così lui mi ha detto, e mi ha sbattuto fuori. Bastardo!
Un peso immane m’ha gonfiato il petto. Mi schiaccia in terra, mi inchioda come un tuono. I miei piedi mi portano nel fosso. Vado ora qui, ora là, come un randagio inquieto, un torvo. Mi basterebbe un goccio per strapparmi dal ventre questo intoppo che mi trascina allo scarto, alla deriva. Com’è che sono finito al casolare? Voglio e non voglio. Non resisto. Devo. A mani nude, scavo nel muretto. Eccole: la 7,65 e anche la mitraglietta. Perché cazzo le tocchi, scemo!? Che le prendi a fare? Ma non è più Roberto che si esprime, non mi riconosco. Qualcun altro dentro me preme e afferra il piombo. Nelle mani scotta. Devo scaricare. Farò vedere adesso che so fare.
S’è fatta pace, intorno. Il peso ora mi lascia respirare. Sale dal basso la nebbia. Distinguo un filare nel campo, e oltre, uno a maggese. Lui è seduto accanto a me, il capo innaturalmente reclinato e la sigaretta che fumava spenta sul pavimento dell’Alfa nero sangue. Ora che tutto è finito, finito per sempre, non posso guardare. Mi fa paura la sua faccia spappolata a grumi, il naso mancante, schizzato chissà dove. Non posso essere stato io a sparargli. Eppure sono stato.
È nebbia e avanzo, alto, massiccio e instabile. Vado dove mi portano le pistole. Loro sanno. Il Fico sta chiudendo, sono rimasti in pochi, quelli giusti. Un movimento e partono tre colpi. Enrico con Ada vanno giù per primi. Poi tocca a Ennio. Le donne strillano e i camerieri si acquattano fra i tavoli. Li tiro fuori a calci e pugni, li faccio inginocchiare sopra i morti. La bifilare ha esploso dieci colpi e cinque in canna sono ancora buoni. Sto per scaricarglieli nei corpi, ma quelli cominciano a supplicarmi a mani giunte. Parole, non capisco quali, preghiere che mi addolciscono la testa, mi rinfrescano le mani. Il piombo li rinnega. Li lascio così, a cagarsi addosso come cani. Corro fuori. C’è un tizio su una Alfa col motore acceso. Apro la portiera d’istinto, sono dentro. Gli ordino di andare. Viaggiamo senza un fiato nella notte verso dappertutto e da nessuna parte. Albeggia. Dico al tizio: accosta! Chiede il permesso di fumare. Glielo dò. Si accende una Marlboro. Si accorge solo all’ultimo della bocca che gli bacia la tempia e gli sputa dentro piombo e fuoco.
Pazzo, direte. Pazzo, assassino, criminale. Mi cercherete in tanti con uniformi, elicotteri e cani. Questo mi piace. Potete giurarci: non mi troverete! Ma se anche mi troverete, non sarò io. Non mi riconoscerete. E come potreste se dal momento che è partito il primo colpo neanche ai miei occhi sono stato più lo stesso? Una cancrena, un tumore, un vortice mi ha strappato dalla realtà. Non vorrete saperne di me. Si ha pietà per i morti, giustamente. Per i morti ammazzati più a ragione. Ma chi mai avrà pietà di questo vivo?

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