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Una storia semplice…

Volonte

Tra Il giorno della civetta e Una storia semplice passano ventotto anni; gran parte degli anni creativi della vita di Sciascia. Vita troppo breve, soprattutto per chi, avendolo amato, a meno di trent’anni dalla sua scomparsa, non si rassegna alla sua assenza. Una storia semplice è l’ultimo testo narrativo di Sciascia: esce in libreria il giorno stesso della sua morte. Un racconto brevissimo, di quella brevità sempre più da Sciascia perseguita in termini di asciuttezza, di densità di significati e della parola che si dilatano nel cervello e nella coscienza del lettore e ne moltiplicano gli echi.
Questo libro, insieme con A ciascuno il suo e al Giorno della Civetta, è il terzo giallo siciliano di Leonardo Sciascia, di quella peculiare maniera del maestro di Racalmuto di utilizzare il genere letterario del giallo sovvertendolo: non più rassicurante itinerario alla fine del quale il bene, infallibilmente, trionfa sul male, l’ordine sul disordine, ma rappresentazione mediante la scrittura della verità e della giustizia che i poteri, le inquisizioni, sempre occultano e sbeffeggiano.
È un gesto di scrittura che in Una storia semplice rivela il delitto: quel punto apposto dall’assassino alla frase Ho trovato, che nella sua incongruenza rivela la menzogna. Perché l’italiano non è l’italiano: è il ragionare – dice il professore Franzò, alter-ego di Sciascia, anche lui, come il personaggio, inchiodato, mentre scriveva il racconto, alla dialisi.

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Lo dice al magistrato, suo ex allievo, che subito sappiamo parte del contesto del potere secondo l’accezione della parola contesto che diventerà il titolo di un altro grande romanzo di Sciascia.
Una storia semplice è dunque un ritorno alla Sicilia, quasi a chiudere il cerchio; ma di quella Sicilia come metafora del mondo che immancabilmente torna negli scritti di Sciascia. Ritorno desolato, amarissimo, ma non rassegnato. Non a caso la citazione che apre il racconto è di un altro scrittore eretico, da Sciascia molto amato, lo svizzero Durrenmatt: Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia.

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Che cretino, commenta il magistrato a elogio funebre del commissario, il cui errore ha rivelato le sue complicità mafiose e lo ha portato a uccidere e a essere ucciso. Cretino perché si è fatto uccidere; intelligente, infatti, per lui (e per troppi cretini veri) è chi, nel disprezzo di tutti, attraverso la menzogna, la fa franca. Era un cretino, simmetricamente, sentenzia don Luigi alla fine di A ciascuno il suo: un epitaffio per il professore Laurana, il quale, per aver cercato la verità ed essersi illuso di trovare giustizia, giace ammazzato sotto grave mora di rosticci – con la pietra tombale di una menzogna, che come sempre (e non solo nei racconti di Sciascia) si concludono le complicatissime storie semplici del mondo in cui viviamo. Perché cretino, si capisce, è anche chi, ingenuamente, la verità e la giustizia si ostina a cercare.
Gli spettatori milanesi dell’edizione teatrale de Il giorno della civetta, come chissà quanti lettori che non hanno capito o non hanno voluto capire, hanno applaudito e applaudono, con masochistica complicità, la tirata cinica e nazista del capomafia don Mariano Arena, non rendendosi conto, in tal modo, che rumorosamente accettano di appartenere a quel popolo di cornuti sul cui mare di corna i don Mariano di sempre e di ogni dove si vantano di navigare grazie al loro cinismo criminale. Sciascia, no! Sciascia non ha applaudito; Sciascia non applaudiva. Sino alla fine ha continuato scrupolosamente a scandagliare le possibilità che forse ancora restano alla giustizia; malgrado l’amarezza, malgrado il pessimismo, malgrado la malattia. Da grande scrittore, da uomo eretico qual era. Eretico di ogni chiesa, di quella comunista come di quella cattolica, con buona pace di chi, anche da morto, continua a tentare di annetterselo.
L’uomo della Volvo – personaggio metafora del cittadino che credendo nella giustizia fa il suo dovere di testimone e si mette nei guai –, l’uomo della Volvo , alla fine di Una storia semplice, dice al prete-assassino, che in nicchio, cotta e stola si prepara a celebrare il funerale di un assassinato, che lui non è della sua parrocchia, che lui non ha parrocchia.

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La sola religione di Sciascia (a parte quel peculiare cristianesimo che lui ha riconosciuto in Pirandello) è forse stata la ragione. Ma con una punta di eresia anche in quella: al brigadiere Lagandara, che dice di sommare aritmeticamente gli indizi che portano alla verità, il professor Franzò consiglia di sciogliere anche nell’aritmetica qualche grano di dubbio.
C’è un paradosso per Sciascia, in quella che si suole definire la fortuna di uno scrittore: certo, continua a essere presente, a essere letto, ma a me pare che la sua opera rimanga occultata dentro un malinteso, rimossa qualche volta. Basti pensare allo spettacolare silenzio di cui nelle verbose, confuse e spesso ipocrite rievocazioni dell’assassinio di Aldo Moro è stato circondato il suo libro formidabile sul quel delitto politico. La tutt’ora bruciante attualità dei problemi mai risolti che lui ha affrontato, il suo ruolo di protagonista nelle polemiche durissime che hanno accompagnato la sua vita, lo fanno ancora leggere e considerare come se lui fosse stato un sociologo, uno storico, peggio, un politico se non un maître à penser che ognuno cerca di respingere o tirare dalla sua parte, e non il grande scrittore che è stato, che è.
Chissà oggi e a chi interessa a quali fatti e contingenti accanimenti si riferissero nei loro grandi libri scrittori del calibro di Dostroevskij, Manzoni, Joseph Roth. Quei fatti e avvenimenti, che come molti altri uomini hanno vissuto e patiti nella loro vita, sono stati anche, naturalmente, la materia del loro scrivere; ma la loro grandezza noi riconosciamo nel modo in cui li hanno usati quei fatti e trasformati dentro la forma della letteratura.
Bisognerà restituire Sciascia alla potenza della sua parola; solo allora lo si farà uscire dal malinteso paradossale che ancora ne offusca la sua grandezza letteraria.

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