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L’opera fotografica “Camp Oinawa” di Shomei Tomatsu si svela come un lungo sguardo, un arco temporale di quaranta anni che indaga le pieghe e le cicatrici dell’isola di Okinawa. Non è un viaggio in un paesaggio, ma un pellegrinaggio nell’anima di un luogo. Si tratta di 114 attimi catturati, silenziosi e clamorosi al tempo stesso, 60 dei quali resi ancor più vividi dalla cromia. L’obiettivo di Tomatsu non osserva solamente, ma interroga: chi sei Okinawa, isola di confini e di storie incrociate?
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Si percorrono le strade da Naha a Kadena, e ogni immagine è un incontro. C’è il mare che confina con la terra, la lingua che si mescola, l’asfalto che si posa sulle radici. Tomatsu cattura l’essenza di una cultura nata dall’ombra della presenza militare americana. E mentre il metallo delle basi riverbera sotto il sole, le persone vivono, ridono, sospirano tra recinti e cieli aperti.
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Nelle fotografie si intravede l’ibridità di Okinawa. Eppure, nella sua molteplicità, l’isola rimane sempre ‘l’Altro’, separata dal cuore pulsante del Giappone. È una specie di limbo culturale, un crocevia dove si mescolano il tradizionale e il moderno, l’Oriente e l’Occidente, in un dialogo continuo ma spesso inascoltato. Ma, oltre l’ibridità, c’è il senso di un’alterità profonda, una separazione non solo geografica ma anche spirituale da quel che è il Giappone continentale. Okinawa è come un foglio strappato dal libro della storia giapponese, una pagina su cui sono state scritte parole in un dialetto comprensibile solo a chi ha vissuto il medesimo destino di esilio interiore.
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Shomei Tomatsu, con la sua macchina fotografica, fa più che documentare: apre finestre su mondi complessi, introduce domande senza fornire risposte semplici. E forse non ci sono risposte semplici da dare, ma solo altri sguardi da incrociare.
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“Camp Oinawa” non è un epilogo, è un’interrogazione continua. Come le onde che lambiscono le coste di Okinawa, è un movimento perpetuo di ricerca e di scoperta, una narrazione aperta che invita a guardare, a pensare e, infine, a comprendere.